C. Gounod: Messa solenne in onore di S. Cecilia

Durante l’inverno 1847/1848, all’età di ventinove anni, l’autore di Faust vestiva l’abito talare; egli seguiva dei corsi al Séminaire des Carmes e svolgeva le funzioni di Maestro di Cappella presso la chiesa delle Missioni. Firmava le sue lettere: “Abate Gounod”. “Sentii una velleità di adottare la vita ecclesiastica”, scriverà nelle sue Memorie; ma il termine velleità è frutto di una sua valutazione a posteriori, dato che in quegli anni Charles Gounod aveva effettivamente desiderato di divenire sacerdote, infiammato com’era, durante il suo soggiorno a Roma, dai sermoni di Lacordaire, un avvocato parigino divenuto figlio di S. Domenico. Ma, aggiungerà: “sentii dopo qualche tempo che mi sarebbe stato impossibile vivere senza la mia arte e, lasciando l’abito per il quale non ero stato fatto, rientrai nel mondo secolare”.

Ci si può chiedere se Gounod non sia stato vittima di una duplice illusione, del tutto tipica del Romanticismo.

La prima, l’impossibilità di coniugare l’estetica di matrice romantica ad una prassi esecutiva liturgica. Da quando un professore dell’Università di Heidelberg aveva fatto scuola decretando che la “purezza dell’arte musicale” adattata al culto si collocava nel passato, nello stile classico della polifonia e di un’estetica pseudo-palestriniana, la musica autenticamente contemporanea era considerata come poco adattabile alla funzione liturgica. L’ammirevole sintesi tra il più rigoroso contrappunto e la musica più drammatica o espressiva, operata da J. S. Bach e più ancora da Mozart, era stata dimenticata; in ogni caso, era reputata disdicevole. Nell’occasione in cui Gounod presentò qualche pagina della sua estremamente palestriniana “Messe de Rome” alla Karlskirche di Vienna (1842), un critico austriaco giudicò che, a dispetto di uno stile imitante Palestrina, essa lasciava trasparire troppo “il romantico francese”.

L’altra illusione forse fu per Charles Gounod l’aver identificato il suo interesse appassionato per l’espressione musicale della fede con una vocazione sacerdotale. La storia offre più di un esempio di sacerdoti che sono divenuti maestri di musica, fatto questo che dimostra che le due vocazioni si possono effettivamente coniugare e confondere, come per esempio in un genio come Tomas Luis de Victoria, che non scrisse una sola nota di musica che non fosse destinata alla celebrazione liturgica. Gounod, che pure era stato iniziato dalla sorella di Mendelssohn, Fanny Hensel, a Bach e a ben altri grandi “laici” della musica sacra, fu invece forse portato a credere che l’ascesi esclusiva di de Victoria fosse il solo ideale possibile per un musicista “religioso”.

Resta il fatto che una parte molto importante dell’opera di Gounod rimane, ancor oggi, assai mal conosciuta; le sue sedici Messe, ad esempio. Fatto questo che contraddice la profezia di Saint-Saëns, che era stato entusiasmato, come tutti gli appassionati di musica, dalla Messa in onore di S. Cecilia; all’indomani della morte di Gounod, non esitò ad affermare: “Quando, per l’avanzare fatale del tempo, in un lontano futuro le opere di Gounod saranno entrate per sempre nel santuario polveroso delle biblioteche, conosciuto solo dagli eruditi, la Messa di Santa Cecilia, Redenzione e Mors et Vita resteranno sempre in vita per rammentare alle generazioni future quale grande musicista abbia reso illustre la Francia nel XIX secolo…”

Questa Messa Solenne fu scritta per commissione, ma è anche intimamente legata alla vita privata del Compositore. Leggiamo nelle sue Memorie: “In questo periodo ho scritto una Messa solenne in onore di S. Cecilia, che per la prima volta fu eseguita con successo dalla Association des Artistes Musiciens il 22 novembre 1855 nella chiesa di Saint-Eustache, e che è stata eseguita parecchie volte nel seguito; essa è dedicata alla memoria di mio suocero Zimmermann che noi avevamo perduto il 29 ottobre 1853.” La madre di Gounod era una pianista qualificata; egli aveva sposato Anne Zimmermann, un’appassionata musicista figlia del professore di pianoforte al Conservatorio di Parigi. Nessun dubbio che l’incarico dell’Associazione abbia invogliato Gounod a riprendere un lavoro già cominciato dopo la morte del suocero. Si intuisce anche perché non si trattò di un Requiem ma di una Messa in onore della patrona dei musicisti festeggiata il 22 novembre: la prima pagina della partitura stampata da Lebau l’Aîné alcune settimane dopo la composizione reca scritto ben chiaro: “In memoria di J. Zimmermann, mio Padre”, ma anche i titoli del compositore: “Direttore Generale dell’Insegnamento del canto e della Società corale maschile della città di Parigi”.

A diciassette anni, Gounod consegue brillantemente il diploma; a ventun anni vince il Prix de Rome, che gli vale il soggiorno di tre anni alla Villa Medici e l’amicizia del suo Direttore, Jean Ingres (che apprezzò anche le sue doti innate nel disegno). A quarant’anni, Gounod è un maestro nella sua arte. Per la prima volta arricchisce una messa da concerto perfettamente liturgica (il cui spirito si confaceva alle aspettative dei musicisti di chiesa, teorici compresi) di tutte le risorse della musica nuova del suo tempo. L’orchestra è imponente: due parti per flauto, oboe e clarinetto, ma anche un ottavino, quattro fagotti, quattro corni, due trombe, tre tromboni, due cornette, timpani, grancassa, organo e l’orchestra d’archi. Per non dire delle sei arpe: è vero che la nonna di Gounod era stata, come egli la ricorda nelle sue Memorie, “una signorina Heuzay che suonava l’arpa.. “ Queste sei arpe confermano il fatto che il compositore poteva contare su di un’orchestra assai nutrita, dato che la partitura non comporta che una sola parte di arpa.

Il testo utilizzato e la sua elaborazione musicale sono strettamente liturgici per l’epoca: si tratta del testo ufficiale dell’ordinario della messa romana. Gounod la fa seguire dalla preghiera ugualmente liturgica in Francia per le autorità civili: Domine salvum fac imperatorem nostrum Napoleonem et exaudi nos qui invocaverimus te (Signore, proteggi il nostro Imperatore Napoleone ed esaudiscici nel giorno in cui ti abbiamo invocato). L’unica originalità che egli si consentì fu di far cantare tre volte questa invocazione, attribuendo ciascuna di queste preghiere ad una comunità differente, a cui corrisponde (forse non senza qualche forma di umorismo) il differente ritmo delle tre parti: Preghiera della Chiesa, Preghiera dell’Esercito e Preghiera della Nazione. La distinzione non ci appare macchinosa; semmai traspare un po’ di arguzia nell’opposizione del linguaggio musicale delle tra invocazioni.

Il solo movimento che non corrisponde ad un’esigenza della liturgia tradizionale è l’Offertoire, un Adagio orchestrale per flauto, oboe, clarinetto, quattro fagotti, due corni ed archi in sordina con accompagnamento d’organo. In questa pagina, il musicista ha cercato di creare l’atmosfera contemplativa di certi antichi pezzi per organo (come ad esempio le toccate per l’elevazione), segnatamente per il modo in cui ha utilizzato la tonalità di la bemolle maggiore in assenza quasi totale di modulazioni; tentativo riuscito, bisogna dire, poiché ne è scaturita una ammirevole musica meditativa di preghiera. Questa prassi non era estranea ai musicisti contemporanei di Gounod: nella sua Missa Sacra, Schumann aveva incluso anche un a solo nell’offertorio strumentale, sul testo liturgico dell’Ave Maria; nella sua Messa Ungherese, Liszt era andato anche più lontano, affidando all’assolo di violino del suo amico Reményi una parte vicina allo stile tzigano, che avrebbe sorpreso il pubblico non più che l’utilizzo di un carol natalizio in una Messa di Natale.

Il carattere funzionalmente liturgico della Messa in onore di S. Cecilia è anche affermato dalla predominanza dei cori o del terzetto di solisti che si alternano con il coro; gli interventi solistici sono rari: essi costituiscono la vera difficoltà dell’opera, poiché l’interprete deve evitare ogni allusione a virtuosismi del bel canto nello sviluppo vocale, anche quando la scrittura sembrerebbe suggerirli. Certe indicazioni del compositore possono creare dei malintesi, se collocate in una visione post-romantica: se si forza, ad esempio, l’indicazione “un po’ più animato e molto in tempo” per la “Preghiera dell’Esercito” o il “Molto largo” per la “Preghiera della Nazione”, si falsa la prospettiva del compositore; così pure, l’indicazione “Pomposo” per l’Allegro del Gloria si riferisce evidentemente al significato barocco del termine.

Nel contesto della pura tradizione delle messe con orchestra della fine dell’epoca barocca e soprattutto dei capolavori di Mozart, Haydn e Beethoven, Gounod drammatizza intensamente, attraverso un’efficace modulazione, il descendit de caelis (è disceso dal cielo) e fa della sequenza del testo tra l’Et incarnatus est (si è incarnato) fino al lacerante Crucifixus (fu crocifisso) in sol minore il centro di gravità musicale della partitura. Egli precisa in testa all’Adagio: “Questa narrazione del mistero dell’Incarnazione deve essere cantata dal coro più piano possibile, in modo da rispondere, attraverso il profondo raccoglimento nelle voci, all’impenetrabile profondità dell’argomento”. Un’eco di questo clima sonoro si ritrova nell’Adagio del Benedictus, accompagnato dai soli archi; bisogna ricordare che, all’epoca di Gounod, il cerimoniale prevedeva che questi versetti fossero cantati dopo l’Elevazione e che la tradizione culturale legata ai mottetti per l’Elevazione del XVII secolo francese deve aver certamente influenzato l’ispirazione del musicista in questo contesto.

Gounod compose la sua Messa in una residenza estiva, presso Avranches. Una lettera scritta dalla Normandia rivela lo spirito con il quale lavorava: “Non c’è che una difficoltà: rispondere attraverso la musica alle esigenze di questo incomparabile ed inesauribile soggetto: la messa!”. Un tale stato d’animo, senza dubbio, ha motivato alcune scelte al di fuori della tradizione, quali l’interpolazione del Domine, non sum dignus (Signore, non sono degno) nell’Agnus Dei; elemento questo che non costituisce un arbitrio in rapporto alla liturgia ma una fedeltà al testo della messa che va addirittura al di là della fedeltà alla tradizione. Qualcosa di questo spiccato coinvolgimento personale del compositore deve essere stato sicuramente percepito durante la prima esecuzione nella chiesa di Saint-Eustache, oltre alla qualità puramente formale o musicale della Messa, poiché Saint-Saëns poté scrivere: “L’apparizione della Messa di Santa Cecilia (...) causava una sorta di stupore. Questa semplicità, questa grandezza, questa luce serena che si levava sul mondo musicale come un’aurora, turbava tante e tante persone. (…) E’ per torrenti che i raggi luminosi zampillavano da questa messa”.

All’inizio della sua carriera, per parecchi anni, Gounod aveva concentrato il suo lavoro di compositore di musica sacra su modelli del passato, come la polifonia palestriniana e le strutture tematiche modali; egli aveva mostrato la sua preferenza per l’accompagnamento con solo organo. Nella Messa in onore di S. Cecilia egli rinuncia a questi riferimenti puramente esteriori e tradizionali, considerandoli senza dubbio degli artifici, per scrivere la sua partitura con le sole risorse della musica più contemporanea e più orientata verso l’avvenire. D’altra parte, ciò è quanto esprimeva nelle sue riflessioni sull’Artista nella società moderna, pubblicato in coda alle sue Memorie: “L’assoluta sincerità di fronte a se stessi. (…) Quando l’esistenza ha preso il posto della vita, ci si deve stupire che il sembrare prenda il posto dell’essere, il saper fare quello del sapere? (…) Se è assente il Dio nascosto, il Dio il cui regno è dentro di noi, bisognerà bene crearsi degli idoli…”.

Carl de Nys (EMI FRANCE)